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Algoritmo: quando usate una parola, fateci caso!

Scritto da Sandro Cisolla
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Quando un termine inizia a diventare di dominio pubblico, a mio parere è il caso di chiedersi perché ciò avvenga. O quantomeno, notarne l’ampia diffusione.

É capitato con “complottista”, “sanificazione”, “resilienza”, “patriarcato” e la lista potrebbe essere ancora molto lunga, soprattutto per ciò che concerne gli ultimi 3 o 4 anni. 

Succede così: una parola si diffonde (o “viene diffusa”), le persone iniziano a usarla e piano piano si abituano ad attribuire un nuovo sistema di senso al loro comunicare, anche attraverso l’impiego massivo di quel nuovo termine.

Come scritto in precedenza, ritengo che sarebbe molto utile perlomeno essere consapevoli di questo processo. Perché è attraverso l’osservazione attenta di una particolare dinamica che si può comprendere ciò a cui essa sottende.

Se utilizzate quotidianamente i social, ad esempio, avrete certamente sentito parlare del famigerato algoritmo.

Recentemente, questa parola si è “misteriosamente” diffusa anche tra le persone comuni, quando un tempo era dominio esclusivo degli addetti ai lavori.

In questo caso, la mia personale opinione è che sia un bene che la si utilizzi così ampiamente, perché questo ci offre la possibilità di portare l’attenzione su un fenomeno da cui dovremmo guardarci bene. A patto che, come detto sopra, si sviluppi una certa attenzione nel notarne l’ampia diffusione.

Se apriamo Instagram, possiamo facilmente notare quanto, dopo un “tempo tecnico” passato a ricercare contenuti specifici, ce ne verranno proposti altri che risulteranno in qualche modo collegati alle nostre ricerche. 

Questa, in poche parole, è l’azione dell’algoritmo, che associa i nostri comportamenti all’interno di una piattaforma Social (ad esempio i “like”, il tempo passato a guardare un contenuto piuttosto che un altro, la velocità con cui “scrolliamo” al video o alla foto successiva, fino ad arrivare – secondo quanto affermano alcuni, pur senza evidenze scientifiche – allo studio dei movimenti oculari grazie alle moderne tecnologie di cui sono dotati gli smartphone) alle macro o micro categorie di contenuti con cui interagiamo, facendo in modo di “somministrarcene” atri che siano gradualmente sempre più conformi al nostro interesse (per altro in maniera sempre più puntuale, grazie all’integrazione dell’Intelligenza Artificiale).

In questo modo i nostri profili social si trasformeranno sempre di più in “piccole stanze a tema”, dove ciò che osserviamo è esattamente ciò che desideriamo. Si tratta essenzialmente di proporre flussi di informazioni molto simili tra loro, basati sull’identikit che l’algoritmo ha tracciato della nostra persona: per banalizzare, se dai miei comportamenti emerge che amo la musica rock e gli animali selvatici, ma allo stesso tempo sono una persona dall’ironia semplice e non particolarmente sottile, l’algoritmo potrebbe propormi un fotomontaggio di un orso con la maglia dei Led Zeppelin e in sovrimpressione la scritta Sex, Honey and Rock’n Roll. Ovviamente, grazie allo sviluppo tecnologico, questa dinamica può raggiungere alti gradi di complessità, arrivando a toccare sfumature della nostra persona di cui nemmeno potremmo essere consapevoli. 

Ciò produce diversi effetti: 

trascorrere sempre più tempo all’interno delle piattaforme, perché bombardati da contenuti che ci “ipnotizzano”;

⁃ inserirci all’interno di una comfort zone dell’informazione, dove il nostro pensiero critico si atrofizza sempre di più. Un esempio lampante di quanto appena espresso, si può evidenziare in quelle “vignette” che oggi vanno tanto di moda in cui si associano delle situazioni generiche che potrebbero riguardare chiunque, a un particolare segno zodiacale. Mi capita di assistere a decine di condivisioni al giorno di tali contenuti, ovviamente con la massima corrispondenza tra il segno zodiacale indicato e quello dell’utente autore della condivisione;

⁃ formare le nostra identità personale in base ai contenuti che ci vengono proposti. Questi, infatti, saranno perfettamente attinenti al nostro modo di pensare, di ridere, di osservare il mondo, e quindi ci sentiremo particolarmente “orgogliosi” nel condividerli. Il rischio sarà quello di trovarsi imprigionati in un loop di condivisione bulimica, in cui “si diventa il contenuto che si condivide”.

Ci sarebbe molto altro da dire sul tema, magari attraverso approfondimenti tecnici che lascerei esprimere a chi ha maggiori competenze informatiche. 

Ciò su cui è interessante riflettere, comunque, è quanto le parole, il loro significato profondo, il loro utilizzo e la loro diffusione, possano sottendere a una serie di riflessioni che potrebbero condurci a sviluppare una visione più consapevole di uno specifico argomento

La prossima volta che un termine inizia a ballare con insistenza in TV, sui social, o tra i vostri conoscenti, fateci caso. É già un primo passo per iniziare a rifletterci.